A conclusione del ciclo sul buddismo, si è tenuta al Toschi un’intensa e precisa lettura del buddismo nella sua versione “Soto Zen”. Protagonista il missionario saveriano Luciano Mazzocchi (nella foto) che ha vissuto a lungo nei monasteri giapponesi, intrecciando rapporti di fraternità e dialogo con quel mondo, e fondando infine l’Associazione Vangelo e Zen. Niente da spartire, ha tenuto a sottolineare Mazzocchi, con la scuola italiana Soka Gakkai che non è riconosciuta dalle comunità giapponesi.
Fondatore dello “Zen” è Dogen (1200-1253), figlio di un Principe ucciso dai propri nemici, che viene allevato dai monaci della corrente buddista allora diffusa nell’ambiente imperiale.
Non soddisfatto di tale pratica, va in Cina per scoprire quale sia la natura del Buddha che fonda e permea ogni cosa.
Già sulla nave, incontra un monaco cinese che fa il cuoco: gli chiede allora perché i monaci cinesi non deleghino ai laici una tale attività.
La risposta è che cucinare è già una pratica buddista: non occorre infatti cercare altro che la vita presente: così come siamo, siamo l’infinito. L’infinito non è diverso dal continuo variare degli enti.
Giunto ad un monastero rupestre, viene messo a meditare di fronte ad un muro, in silenzio: meditare significa vivere senza cercare un ulteriore “perché”.
Tutto ciò che è essenziale è infatti già presente in noi, e lo perdiamo solo allorché cerchiamo di trattenerlo.
Si tratta del “Chan”, che Dogen traduce in giapponese col termine “Zen”: la parola è composta dall’ideogramma del sole e di uno stendardo.
Ciò che è autentico si attinge senza sforzo, come il sole sorge senza sforzo.
Tornato in patria, Dogen viene perseguitato dal buddismo imperiale, finché nel 1600 lo Shogun prende un praticante zen sotto la sua protezione, facendo ricadere però il monachesimo nelle stesse pratiche esteriori che Dogen aveva rifuggito.
Oggi i monasteri zen sono rari in Giappone, mentre tale pratica suscita grande interesse in occidente.
La tendenza occidentale consiste nel cercare di ghermire la realtà con la conoscenza: ma in questo modo si stabilisce già un rapporto artefatto e teso con la realtà, che va invece lasciata scorrere.
Il fondo delle cose non è l’essere, non è il non essere: è il vuoto.
La vera realtà non si trova né su una sponda né sull’altra degli opposti, ma si trova nel VUOTO-SUNYATA. Noi occidentali, ha sottolineato Mazzocchi, abbiamo ignorato lo zero, che non è il nulla (ciò che ne scaturirebbe sarebbe allora nichilismo), ma qualcosa che viene prima degli enti, o meglio che è al di fuori della serie degli enti, e in quanto tale li fonda e li permea.
Da questa visione del mondo scaturisce, nella cultura giapponese, un atteggiamento di lieve malinconia (wabi), che può anche essere gustato, ma che soprattutto suscita la compassione verso le cose e gli esseri.
Lo Zen non va alla ricerca di esperienze esaltanti: nell’attimo presente, con tutti i suoi limiti e le sue determinazioni concrete, c’è già tutto.
Se ci si distacca dalle illusioni, la stessa realtà quotidiana si trasfigura, diventa un altro mondo, in cui i conflitti si sciolgono e la morte non ha più lo stesso peso.
Molto interessante il riflesso che la pratica ed il pensiero zen proietta anche sull’esperienza cristiana, evidentemente troppo segnata dalla metafisica e da una concezione sostanzialistica della realtà.
A cominciare dalla nostra concezione di Dio come di un “ente”: se è un ente, ragiona Padre Mazzocchi, allora non è tutto.
Se è un ente superiore a noi perché perfetto, allora la perfezione produrrebbe solo imperfezione e noi saremmo fatalmente in uno stato di soggezione.
C’è da stupirsi allora se un tale cristianesimo, che si è tanto assolutizzato ed imposto, ha suscitato avversione?
Eppure una sensibilità simile a quella buddista è presente nei mistici: Eckhart, Taulero, Cusano, Silesio, Turoldo e, ancor prima, Dionigi l’Aeropagita.
Non a caso però spesso ostracizzati…
I titoli così solenni ed assoluti che abbiamo associato alla figura del Cristo, ha osservato l’oratore, sono stati coniati solo dopo il 300 nel Concilio di Nicea…
Di Dio non dobbiamo farci immagine alcuna.
Molto significativa la prossimità tra la figura di Dogen e quella di San Francesco, vissuto nello stesso periodo: Francesco voleva la povertà non solo come abbandono dei beni materiali, ma più radicalmente come abbandono del “sé”, della propria “Psyché”.
Per lui il regno era qui e ora: scaturiva da una conversione (un cambiamento di rotta) che produceva una trasmutazione dei valori.
Nella povertà, la letizia.
Non si scorge qui una somiglianza abbagliante tra cristianesimo e buddismo?
Con la differenza però che nel cristianesimo il ridimensionamento dell'io serve all'incontro con l'Altro nella resurrezione, mentre nel buddismo tale approdo rimane assente.