In Italia c’è stata una stagione d’oro delle fiction storico religiose ed è stata più o meno nei primi quindici anni del nuovo millennio. La TV di Stato e quelle private hanno presentato le storie di S. Pietro, Santa Barbara, Chiara e Francesco, S. Agostino, Giovanni XXIII e molte altre. Il convegno tenutosi a Napoli il 17 e 18 novembre scorso (organizzato dall’Istituto di Storia del Cristianesimo Cataldo Naro e dal Coordinamento delle Teologhe Italiane, al quale si poteva partecipare anche online)
ha approfondito i motivi di questo successo, le ragioni della successiva eclisse, la qualità della trasposizione in TV delle storie di personalità religiose e anche non religiose.
Diverse relazioni sono state davvero intriganti anche perché a volte succede di utilizzare a scuola le fiction che magari si possono riprodurre tramite RaiPlay o altre piattaforme. Il dato più importante che a mio parere è emerso è che molto spesso le fiction che raccontano di personaggi storici, di storico non hanno quasi nulla. Uno degli esempi più eclatanti che è stato portato riguarda la miniserie dal titolo “Per amore del mio popolo” centrata sulla figura di don Peppe Diana, ucciso dalla camorra a Casal di Principe nel 1994. Secondo il prof. Sergio Tanzarella, dell’Istituto Cataldo Naro, in questa fiction, la figura di don Diana viene colpevolmente decontestualizzata e banalizzata. Si presenta un personaggio reale come don Diana “totalmente falsificato a favore apparentemente (…) delle esigenze narrative ma contemporaneamente in realtà falsificato con precisi scopi mistificatori e di normalizzazione, scopi non solo commerciali ma anche soprattutto politici seppur ben camuffati nella promozione di una antimafia anestetizzante”. Un giudizio duro espresso da uno studioso che conosce molto bene la vicenda di don Diana e che ha affermato che i fatti sarebbero stati molto più interessanti delle invenzioni ma evidentemente lo scopo “anestetizzante” ha prevalso sulla ricerca della verità.
Osservazioni simili si possono fare anche per la fiction riguardante Giuseppe Moscati, il medico e fisiologo napoletano canonizzato nel 1987. Nella fiction a lui dedicata nel 2007, “Giuseppe Moscati, l’amore che guarisce”, egli viene presentato come un santo venerato dal popolo e osteggiato dai colleghi con i quali in realtà collaborò strettamente. Viene inoltre ignorata la sua attività di ricercatore e intellettuale a tutto tondo, il suo impegno politico, vengono inventati inesistenti triangoli amorosi e altrettanto inesistenti amicizie conflittuali.
Non parliamo poi degli stereotipi di genere che abbondano nelle serie TV. Un esempio eclatante lo ha illustrato a teologa Simona Segoloni parlando della miniserie “Lourdes” del 2004 in cui le figure femminili sono tutte sentimento e irrazionalità, infantilismo e creduloneria mentre le figure maschili sono fortemente razionali ma anche capaci di aprirsi al mistero grazie al contatto con le donne. Donne funzionali alla completezza maschile.
Non cambia molto con figure non religiose quali ad esempio Maria Montessori o Rita Levi Montalcini. A dispetto, e anzi in spregio, alla storia, queste donne sono presentate come ruotanti attorno a una maternità (reale o simbolica) da cui gli autori non riescono a liberarle, ignari che la vita delle donne ha tante dimensioni, non solo quella della maternità. Che anzi, a volte, manca del tutto, perché altre sono state le scelte.
In queste fiction, come in molte altre, nei titoli di coda si avverte che il film è “liberamente tratto” dalla vita del personaggio in questione ma, in realtà, questa libertà si traduce in una vera e propria falsificazione.
Attenzione quindi alle storie che facciamo vedere in classe! Quanto meno vanno analizzate con attento spirito critico, possibilmente confrontandole con le fonti storiche.
Carla Mantelli