In tre prime liceo, nell’ultima lezione prima della pausa natalizia, ho chiesto se c’era la disponibilità a parlare del fenomeno della “baby gang”. La risposta è stata decisamente positiva ed espressa con forza soprattutto da quella parte della classe che solitamente durante le lezioni di Religione resta a guardare ma non si fa coinvolgere. Mi sono accorta con un certo stupore (devo ammetterlo) che, in tutte e tre le classi, diverse ragazze e ragazzi avevano contatti diretti
con i gruppi di giovanissimi che da qualche tempo sono agli onori della cronaca perché spadroneggiano in modo violento in alcune zone del centro di Parma. “Io li conosco, non sono cattivi ragazzi”; “A me non fanno mai niente, io ci parlo, li saluto. Certo, non bisogna provocarli”; “Il problema è che non hanno dietro una famiglia oppure i loro genitori sono come loro”; “E’ gente che spaccia e provocano risse per motivi futili”. Queste alcune delle frasi che ricordo da parte di chi, in qualche modo, mostrava comprensione per questi ragazzi pur non condividendone fino in fondo il comportamento. Altre voci erano quelle delle vittime: ragazze che erano state aggredite, molestate oppure solo minacciate. Queste esprimevano soprattutto la paura vissuta e l’intenzione di non andare mai più nel centro della città.
Nessuno condivideva l’idea, espressa da qualche amministratore locale, che il problema si risolverebbe con una più massiccia e capillare presenza delle forze dell’ordine. Una ragazza, una di quelle che ha contatti con le baby gang, a un certo punto ha detto: “Il problema è che non hanno speranza”. Ho cercato di farle spiegare che cosa intendesse ma non ci sono riuscita. L’affermazione mi ha molto colpita anche perché ho l’impressione che ci sia un fondo di verità. Questi ragazzi violenti non vanno a scuola, quindi, non sperano di ottenere un titolo di studio, trovare un lavoro, guadagnarsi da vivere... Tutta l’energia che c’è in loro deve in qualche modo essere impiegata e loro la impiegano ad aggredire, distruggere, provocare risse per provare l’ebbrezza del combattimento.
A Parma funzionano i Servizi Sociali, le Unità di strada dell’ASL, ci sono i Centri di aggregazione giovanile, associazioni ed enti del volontariato... Oltre le funzioni di controllo e repressione svolte dalle forze dell’ordine, non mancano quindi le risorse per affrontare la questione. Può però forse fare qualcosa anche la scuola proprio agendo su quella fascia di adolescenti che hanno contatti senza essersi fatti assorbire e su chi è stata vittima o potrebbe esserlo perché frequenta il centro. Per esempio, si potrebbero immaginare modi per sconfiggere la paura dato che questa costituisce un terreno fertilissimo per fare crescere la violenza. Ho detto molto ingenuamente in una classe: “Andateci in cento in Ghiaia e portate le chitarre e cantate e ballate...vedrete che i violenti se ne andranno”. E una ragazza mi ha risposto: “No! Verrebbero anche loro a cantare con noi!”.
Così, tanto per iniziare l’anno con un sogno... sarebbe un bel percorso da fare nell’ambito del PCTO: progetti per occupare gli spazi pubblici con attività gestite da giovani.