Quando si parla di Bibbia, i ragazzi sbadigliano, e molti di noi ripescano nella memoria storie dall’esito e dalla morale scontati. Non siamo abituati ad aspettarci sorprese dalla Bibbia, ma solo la conferma di una serie di pilastri a cui siamo “rassegnati”: il peccato, la superiorità di Dio, la conclusione che dobbiamo essere “buoni”.
Ma, per chi ascolta la Bibbia con attenzione, con delicatezza, come se la sentisse per la prima volta, le sue storie e le sue singole parole sono invece enigmatiche e insieme evocative, come se parlassero della nostra vita quotidiana, colta nel punto di massima essenzialità e profondità. Con questa “lente”, e con il metodo dell’analisi narrativa, André Wénin, Professore di esegesi biblica all’Università cattolica di Lovanio, ha fatto rivivere la storia della “legatura di Isacco”, con una conferenza dal significativo titolo “Abramo sacrifica la sua paternità”.La storia mette in questione due rapporti: quello di Abramo col suo Dio e di Abramo con suo figlio. Abramo deve acconsentire ad una perdita e ad una separazione radicali che rappresentano una forma di morte, ed è significativo che sia una figura divina a chiederlo.Dio infatti rappresenta l’origine, la cui potenza fecondante si manifesta in situazioni estreme, in cui il futuro sembra svanire se non si accetta una radicale trasformazione.
La forma letteraria in cui il racconto si esprime va trattata secondo Wénin come un “racconto di fiction”, anche se può essere stato ispirato all’autore da realtà presenti nella sua epoca, e dalla finalità di fondare il rifiuto del sacrificio umano e la pratica dell’olocausto in Israele. L’analisi narrativa infatti privilegia, rispetto alla sola dimensione storica, la dimensione letteraria della Bibbia: un insieme di racconti raffinati prima nella cultura orale e poi in un’accurata redazione. L’ascoltatore è parte attiva della narrazione: questo dà l’avvio ad una sorta di “circolo ermeneutico” che comprende anche la storia degli effetti della narrazione stessa.
Utilizzando una traduzione volutamente letterale, Wénin inizia prendendo in considerazione l’ordine di Dio contenuto nei vv. 1-2: “Prendi tuo figlio, il tuo unito/unico, che ami, Isacco, e vattene verso la terra del Moryia e fallo salire là per un olocausto su una delle montagne che io ti dirò”.Formulata così, la richiesta può avere diversi significati; ma, leggendo la storia in base al seguito, gli interpreti pensano che la richiesta del sacrificio riguardi Isacco.
Se la domanda contiene questa ambiguità, sia Abramo che il lettore si pongono la stessa domanda: che senso ha l’ordine di Dio? Ma il lettore è stato avvisato dal narratore che si tratta di un “test”: qual è l’obiettivo del test? Cosa vuol sapere Dio riguardo ad Abramo? Il termine “prova” sarebbe sviante, in quanto introdurrebbe una componente di sofferenza che il termina ebraico non ha. Dio fa un “test”: mette in atto un processo per scoprire qualcosa che ignora. Isacco e i servi che accompagnano Abramo immaginano che Abramo si appresti ad un olocausto per iniziare Isacco a questa pratica, ma Abramo ed il lettore hanno udito la richiesta di Dio ed ignorano ciò che significa. Al versetto 9 si comprende che Abramo ha inteso di dover offrire il figlio in sacrificio. Egli è stato coinvolto in un dilemma drammatico, dopo che per 25 lunghi anni ha atteso insieme a Sara un figlio che permettesse il compimento della promessa divina. Se sacrifica Isacco, che ne sarà della promessa di Dio? Ma se lo risparmia, corrisponderà alla richiesta di Dio? Il test si riferisce al DONO: Abramo ha ricevuto Isacco come segno del rapporto con Dio, orientato alla vita, o si è legato a lui come ad un possesso? E’ disposto ad offrire in dono a Dio ciò che ha ricevuto come dono da Dio? L’altro aspetto del test riguarda il rapporto di Abramo col figlio: rinviandolo al Moryia, Dio fa tornare Abramo all’inizio della sua storia, quando lo ha separato dal Padre che si comportava come uno che possiede la famiglia e non permette ai figli di andarsene. “Vattene” nella Bibbia, ha sottolineato Wénin, è un’espressione rarissima, e nella Genesi ricorre solo in questi passi. Dio parla ad Abramo di suo figlio, sottolineando il suo attaccamento a lui: il tuo unito/unico che tu ami. L’analogia con l’inizio della storia di Abramo è dunque evidente. Abramo amerà Isacco fino a permettergli di separarsi da lui? Oppure si aggrapperà a questo “oggetto” che ha colmato sua attesa? Isacco è per Abramo o per Adonai? Nella Bibbia, Dio crea separando, e non cessa di separare gli esseri per condurli a libertà. Attraverso l’ambiguità della richiesta, Dio rispetta finemente la libertà di Abramo, lasciando a lui la scelta se tenere per sé Isacco. Ma, se risparmia il figlio, Abramo rischia di diventare un padre come il suo. La scelta di Abramo viene narrata nei vv. 3-9 in cui Dio è assente ed il ritmo del racconto rallenta sempre di più, nella tensione crescente in attesa della scelta. Il lettore immagina quanto angosciante sia il silenzio di Dio ed ammira la grandezza della fede di Abramo: l’ultimo gesto rimane sospeso e non si compie. Tuttavia, a quel punto la decisione era già stata presa: Abramo decide di sacrificare Isacco, ed in tal modo risponde al test. La sua fiducia tuttavia non è tuttavia cieca come potrebbe sembrare, infatti egli ha sperimentato per tutta la vita l’affidabilità delle promesse di Dio. Adonai vede la fiducia di Abramo, ed è visto da Abramo: dall’alleanza confermata proviene un dono sovrabbondante. Infine Abramo offre l’olocausto: un montone e non un agnello. Il montone è simbolo della paternità, è situato “dietro” Abramo, perché ormai è superato, ed è impigliato in una “macchia” che rappresenta l’imbrigliamento e la mancanza di libertà del rapporto precedente. Abramo torna dal Moryia senza Isacco, e a Beer Sheva (il pozzo del giuramento) attinge acqua che sembra rappresentare un rinnovato rapporto con Dio. Si rivela così il significato ultimo dell’avventura di Abramo, che ha messo in gioco tutto sé stesso nella relazione e nell’alleanza.
Dio, ha concluso Wénin, appare nella Bibbia come l’origine sempre inafferrabile dell’uomo, che è all’opera nel vicolo cieco della morte: è in una dinamica di alleanza con ciò che lo supera e quindi di riconciliazione con il proprio limite, che l’umano può vivere cambiamenti che non siano mortiferi.