La convinzione che la meritocrazia sia una cosa giusta e desiderabile è pensiero di molti. Anche noi che lavoriamo nella scuola pensiamo spesso che i buoni risultati scolastici o, più elegantemente, il successo formativo, sia frutto dei meriti di studentesse e studenti. “La tale si merita di essere promossa, il tale non se lo merita proprio...” sono frasi che risuonano continuamente durante gli scrutini. Ma davvero il successo delle persone dipende dal merito e, di conseguenza, l’insuccesso dipende da demerito?
Il tema del significato, del valore e delle conseguenze della “cultura meritocratica” è stato approfondito in un recente convegno svoltosi grazie all’Università di Cardiff e al gruppo di ricerca Heirs (Happiness and Relationship in Economics). E il risultato è molto problematico. Le organizzazioni meritocratiche intendono premiare l’impegno individuale, lottare contro i privilegi e favorire la mobilità sociale e tutto ciò è molto positivo. Il fatto è però che molto spesso le persone che vengono premiate per i loro buoni risultati (nel mercato, come in politica o nella scuola...) devono il loro successo a una molteplicità di fattori che possono essere molto più importanti del merito: un talento naturale, un ambiente familiare stimolante, una buona istruzione, l’aiuto di altri, la fortuna.
Inoltre, se il successo dipende dai meriti, l’insuccesso dipende dai demeriti, quindi le persone povere, che perdono il lavoro, che fanno fatica a scuola... sono in qualche modo colpevoli. Insomma, la verità è che la meritocrazia rischia di diventare un’ideologia che legittima le disuguaglianze.
D’altra parte, come spiega su Avvenire Vittorio Pelligra, l’inventore del termine “meritocrazia” è stato un certo Michael Young nel 1958. Ma lui, con il suo romanzo “L’ascesa della meritocrazia” intendeva mostrare l’ingiustizia e la non desiderabiltà di una società basata su questa ideologia!
Eppure, in qualche modo, abbiamo bisogno di credere che se le persone si impegnano raggiungeranno i loro obiettivi, abbiamo bisogno di credere che la realtà si sviluppi in base alla logica e alla giustizia anche se questo non è vero o lo è in modo molto parziale.
Quindi che fare a scuola? Potremmo prendere spunto dai metodi di Alberto Manzi che si rifiutava di compilare le pagelle durante l’anno scolastico e alla fine le compilava dando lo stesso voto a tutti? Noi di religione spesso ci lamentiamo perché i nostri voti non sono voti e hanno poco peso... Ma forse sarebbe meglio che ne avessero ancora meno e che le altre discipline si adeguassero a noi...