Stamattina alle 8 sono entrata in classe e ho trovato solo una decina di ragazze. “Come mai così poche?” chiedo. “Sono in bagno. Ieri sera in un incidente stradale è morta una ragazza, amica di Roberta”. Dio mio! E gli occhi mi si riempiono di lacrime. Non so cosa dire, cosa fare...poi chiedo a una studentessa di chiamare le compagne. Tornano tutte in classe, i volti stravolti dal pianto. Vorrei solo piangere con loro, non ho niente da dire. Ma qualcosa devo dire. Sono l’insegnante. In tante mi guardano, in attesa.
Faccio la cosa più banale e più facile: come è successo? Chi era al volante? Che ora era? Mi rispondono a monosillabi, singhiozzando. “Non se lo meritava” dice Federica dal primo banco. Profondamente commossa, dico che la vita è questa, che tutti i giorni succedono cose di questo genere, ingiustizie. Nessun sedicenne si merita di morire. Dico che la prova più difficile sarà per il fratello che era al volante e che sentirà pesantissimo il senso di colpa. Ma ancora più difficile sarà per i genitori, perché perdere una figlia di sedici anni non è accettabile, non è umano. Aggiungo che ho degli amici che hanno dovuto sopravvivere alla morte dei figli giovanissimi. E il pensiero di queste madri e di questi padri mi travolge al punto che il pianto non mi permette più di andare avanti. Roberta mi allunga il fazzoletto che aveva appena preso dal pacchetto. Con uno sforzo gigantesco racconto che alcuni di questi amici hanno avuto la forza di credere che il loro figlio continua a vivere anche se in un altro modo. E hanno voluto che la sua morte generasse nuova vita: hanno creato le condizioni perché altri giovani possano dedicare parte del loro tempo a esperienze di servizio agli altri, in continuità con ciò che il loro figlio stava vivendo. Mi riferivo a Daniele, figlio del nostro collega Federico. Una ragazza ricorda alla classe che l’anno scorso, in circostanze analoghe, ha perso la sua giovane cugina. I suoi genitori hanno istituito una borsa di studio in sua memoria.
Sprazzi di vita, a partire dai morti assurde.
Ho chiesto se qualcuna avesse desiderio di esprimere le proprie emozioni o un proprio pensiero. Nessuna. Allora riprendiamo il nostro lavoro, ho detto. E così abbiamo fatto.
Non ho parlato di Dio né di resurrezione, non ho letto brani di vangelo, non ho inventato risposte a ciò che da un certo punto di vista, almeno per chi non crede in Dio, si spiega molto facilmente: un attimo di distrazione, l’inesperienza di un giovane alla guida, la macchina sbanda, si capovolge, si incendia. Il motivo per cui è morta quella ragazza è chiaro.
Care colleghe, cari colleghi, in momenti come questi possiamo fare qualcosa di più che condividere il dolore? E come lo si può fare meglio di quanto lo abbia fatto io?
PS I nomi utilizzati sono di fantasia